giovedì 30 ottobre 2008

Se stessi

Cantate e danzate insieme
e insieme siate felici,
ma permettete a ciascuno di voi
d'essere solo.

(K. Gibran)

domenica 19 ottobre 2008

Una domenica...

"Il viaggio di scoperta non consiste nel
cercare nuove terre,
ma nell'avere nuovi occhi..."
(M. Proust)

sabato 11 ottobre 2008

da don Lorenzo a padre Alex

Alex Zanotelli

«Se la chiesa avesse il coraggio di scomunicare chi fa la guerra…»
Intervista a padre Alex Zanotelli sul pensiero pacifista di don Milani. A cura di Mario Lancisi (contenuta nel libro "No alla guerra!" Piemme Edizioni 2005 - pagg. 208 - € 12,50)

Quando ha letto L’Obbedienza non è più una virtù?
Ho letto il libro in Sudan, ed è stato per me una delle letture chi mi ha più colpito e influenzato della letteratura religiosa italiana del secolo scorso.

In particolare cosa la colpì di quel testo?
Prima di tutto per me era assolutamente nuovo il tema dell'obiezione di coscienza. Così come, prima di don Milani, non ho mai pensato alla guerra, al sistema militare e alla minaccia atomica come peccato. La dimensione etica di quei problemi non mi apparteneva. È stata L'Obbedienza non è più una virtù ad aprirmi gli occhi.
Nella Lettera ai Cappellani militari don Milani si rifiuta di considerare la patria come una divisione tra italiani e stranieri e sostiene che l'unico concetto di patria che gli appartiene è quello che divide il mondo in oppressi e oppressori.
Quando per la prima volta ho letto quella frase mi ha molto impressionato. A Milani va dato il merito di aver posto per primo il problema dei poveri in chiave planetaria. Secondo il Vangelo il povero, l'emarginato, chi soffre non è mai straniero. Per cui per il cristiano la patria non è un concetto che esclude - come fa la legge Bossi-Fini, ad esempio - ma include. Don Milani si sentiva "patriota" di tutti i poveri del mondo. L'"I care", mi preme, scritto sulle pareti di Barbiana significava il superamento dei rigidi confini geografici per allargarsi al mondo dei bisogni e delle povertà.

Nella Lettera ai giudici sono contenuti temi di grande attualità come il rifiuto della guerra, anche di quella "giusta" perché i conflitti armati nell'èra contemporanea colpiscono i civili. Il "mai più guerra" di don Milani che influenza ha avuto nel movimento della pace e della non violenza?
Direi profonda. Un'influenza che storicamente assume un valore profetico ancora maggiore se teniamo presente che siamo nel 1965 e il Concilio si era già concluso da un anno senza essere riuscito a fare propria la presa di posizione della Pacem in terris. Inoltre il Concilio non era riuscito a parlare della bomba atomica come peccato. Don Milani era tra coloro che avevano percepito come dopo il lampo di Hiroshima non ci poteva essere più una guerra giusta. È in questo contesto atomico che Milani rafforza il suo giudizio deciso contro la guerra. E non solo perché la guerra colpisce i civili ma soprattutto perché è intrinsecamente immorale. La guerra deve diventare un tabù come l'incesto, ad esempio.

Un altro tema molto forte è quello dell'analisi milaniana sulle guerre combattute dall’Italia, dal Risorgimento alla 2º guerra mondiale. La conclusione a cui perviene il priore di Barbiana è che tutte le guerre sono state fatte dalla classe dominante, dai ricchi, dai potenti mentre i poveri sono stati mandati al fronte a morire per i loro oppressori.
Sì, tema forte, fortissimo. Uno degli aspetti che mi aveva colpito di più, leggendo la "Lettera" fu proprio la differente lettura della storia italiana tra me e don Milani. La storia dipende infatti dal punto di vista in cui uno decide di leggerla. Don Lorenzo la leggeva dalla parte dei poveri, degli sconfitti mandati ad esempio allo sbando sul fronte delle prima guerra mondiale. Tutto questo ha pesato moltissimo sul movimento per la pace italiana.
Ho parlato a lungo con Tonino Drago, dell'università di Napoli, uno dei grandi ispiratori della non violenza attiva in Italia.
Gli ho chiesto come mai proprio a Napoli si è sviluppata questa attenzione? E lui mi ha risposto che tutto nasce negli anni Sessanta dalle posizioni dei pacifisti cattolici, da Dorothy Day, la pasionaria americana, cattolica, che fondò il giornale "Catholic Worker", da Lanza Del Vasto, dalle piccole sorelle del Vangelo che si trovavano a digiunare davanti a San Pietro per cercare di attirare attenzione e di portare la non violenza attiva all'interno del Concilio e bollare la guerra atomica. In questo contesto si inquadra anche l'apporto fondamentale di don Milani.

Don Milani scrive che "nessun cristiano può partecipare alla guerra nemmeno come cuciniere" e, riprendendo Gandhi, contesta anche la Croce Rossa. Questo è un tema molto sentito, che si pone spesso, anche Gino Strada, del fatto cioè che non si può fare la guerra e poi andare dietro con le autoambulanze e fare i cuochi o i cappellani.
Io penso che anche in questo Milani è stato chiarissimo, soprattutto sui cappellani militari che, per come sono oggi concepiti e strutturati, sono parte integrante della guerra, perché sono militari a tutti gli effetti, pagati dall'esercito.

Come mai 40 anni dopo la Chiesa è ancora così titubante incerta e non ha la forza per gridare, come Paolo VI all'Onu: "Mai più guerra"?
La ragione fondamentale è questa: la Chiesa potrà dire questo solo quando finalmente farà il passo finale, rinunciare all'essere religione civile. Purtroppo la Chiesa per tanti secoli è diventata religione civile, ha benedetto imperi ecc. Non è questo il suo compito, ma quello di essere coscienza critica per la società. Nasce da questo contesto la richiesta che più volte ho avanzato, cioè se la Chiesa vuole uscire da questa eredità di religione civile, una delle cose importanti da fare è che il Vaticano rinunci ad essere Stato.
Non è concepibile che il Papa sia anche Capo di Stato, questo mette in moto tutta una serie di trappole, la diplomazia ecc. Per cui è chiaro che bisogna barcamenarsi poi da tutte le parti. Il magistero della Chiesa deve avere il coraggio di proclamare come dogma di fede il fatto che è stato Gesù di Nazareth ad inventare la non violenza attiva. Non è stato Gandhi.
Gandhi lo ha imparato dal Vangelo e se la Chiesa ha il coraggio di proclamare questo apertamente, produrrà nel cuore della gente una rivoluzione enorme, un salto di qualità incredibile, e soprattutto in questo momento gravissimo aiuterebbe l'umanità ad uscire da questa follia bellicista in cui si trova.

L'obiezione al "No guerra" è questa: come si dirimono i conflitti internazionali e come si combatte il terrorismo se si rinuncia alla forza armata?
Ormai è sempre più chiaro che il terrorista più lo combatti con la guerra, più diventa terrorista, la violenza produce violenza, fango produce fango. Dobbiamo ritornare a credere al Vangelo della non violenza. Il male si vince con il bene, con la logica della non violenza. Qualcuno dirà che questo può valere a livello personale mentre non si può obbligare a questo un paese, tutta la società.
Ma noi siamo convinti che a questo punto della storia, l'umanità deve fare un salto di qualità. Dalle ultime statistiche abbiamo letto che abbiamo abbastanza bombe atomiche da far saltare 4 volte il mondo per aria. Stati Uniti e Russia hanno dimezzato del 50 % armi nucleari, chimiche e batteriologiche, ma abbiamo ancora abbastanza armi per uccidere la popolazione mondiale 5 mila volte. Abbiamo oltre 340 tonnellate di plutonio. Ne bastano 150kg per uccidere tutti. È la follia totale in cui ci siamo cacciati. Pertanto o l'umanità riesce ad uscire fuori dalla follia totale della guerra oppure ne saremo tutti travolti.

Che cosa deve fare il cristiano per essere costruttore di pace?
Credo che la strada sia stata indicata da Giovanni Paolo II, il 30 novembre 2003, quando all'Angelus, ha detto: "Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione! ‘Beati i miti, perché erediteranno la terra' (Matteo 5,5)". In queste parole è indicata la strada per i credenti nel senso che per le religioni e per le Chiese non è più tempo di silenzi e connivenze di fronte ai conflitti bellici e all'instaurarsi del "pensiero unico" della guerra, intesa ormai come unico mezzo per risolvere le controversie e per far girare l'economia.
Inoltre il papa indica un intreccio tra nonviolenza, perdono e riconciliazione. Si tratta di tre tappe dello stesso percorso, per il quale non si dà l'una senza le altre. Ai cristiani spetta il compito di diventare "maestri" della pedagogia della nonviolenza e i portatori sani di quella che Bernard Häring definiva la "forza terapeutica" della nonviolenza.

Il papa fa un richiamo preciso alla beatitudine della mitezza. Perché?
Non credo che il Papa l'abbia utilizzata come un abbellimento letterario. Sono convinto, che la nonviolenza ha la sua radice proprio nella Parola di Dio e nello stesso Cristo, modello di nonviolenza. Essa non è una delle tante teorie prodotte nella storia dell'umanità o da qualche personalità eccezionale, come Gandhi o Martin Luther King. Al contrario, la nonviolenza evangelica è la sintesi di quel comandamento nuovo, cioè di quell'ordine nuovo, di amarci come Dio ci ama e, addirittura, di amare i propri nemici.

Cos'era in definitiva per Gesù la non violenza?
Per Gesù la nonviolenza rappresentava il superamento della logica del vecchio Testamento dell' ‘occhio per occhio, dente per dente’. "Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli l'altra" (Mt 5,39), diceva Gesù. Per colpire uno sulla guancia destra bisogna usare il manrovescio e al tempo di Gesù veniva usato dal padrone per umiliare lo schiavo. Gesù dice: "Mettiti in piedi fratello, tu sei un uomo, non uno schiavo! E porgigli la guancia sinistra".
Se chiude la mano o usa il pugno della mano, il padrone è costretto a trattare lo schiavo come suo pari. In un mondo di onore e umiliazioni, si è impedito a un pre-potente di svergognare un "inferiore" in pubblico. Gli è stato sottratto il potere di disumanizzare l'altro. Come insegnava Gandhi, "il primo principio dell'azione nonviolenta è la non cooperazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare”.

Il compito della Chiesa?
La nonviolenza attiva deve diventare una dimensione essenziale della sequela cristiana. Le Chiese devono avere il coraggio di proclamare che è Gesù che l'ha praticata nella sua vita. Se la Chiesa scomunica chi abortisce o dice che non può fare la comunione una donna che usa i contraccettivi, non dovrebbe scomunicare chi va a bombardare in una guerra come quella contro l'Iraq ritenuta "immorale" dal cardinale Martino e "criminale" dal cardinale Tauran?

(fonte: www.nigrizia.it)

venerdì 10 ottobre 2008

Legge 180/78. Trent'anni dopo.

La speranza di Basaglia si è infranta nel giudizio storico di Tancredi "Se vogliamo che tutto resti com'è, bisogna che tutto cambi". Sopravvive il ricordo della scritta sui muri dell'Istituto di Gorizia e dell'Istituto di Trieste "Noi liberiamo le persone, voi continuate ad internarle".

Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)- La fuga di Grande Capo



Il manicomio è una grande cassa
di risonanza
e il delirio diventa eco,
l'anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.

Alda Merini

il tempo trascorre e semina campi di scelte





E' disponibile il calendario di Carta 2009 con foto di Danilo de Marco e testi di Erri De Luca e Medha Patkar.

Il calendario è un catalogo inventato, come quello che raggruppa in costellazioni le luci sparpagliate della notte. L'astronomia traccia linee tra i punti luce, gioca alle figurine, vede la zoologia nell'ammasso notturno: l'aquila, lo scorpione, il toro, l'ariete, i pesci, il leone. Così fa pure il calendario con il tempo, scandendolo tra battiti e anni luce.
Il bianco e nero è un fumo che si dirada e si distribuisce sulla carta. Qui si narra la storia del fumo che diventa uomo, fabbrica, cotone, sorriso, acqua, capanna. Qui si riconosce una provenienza. Non era frottola magnifica la notizia biblica della polvere e del soffio umido uscito di bocca alla divinità a combinare Adàm. Era il bianco e nero di una fabbrica prima, fumo che si rapprende. Entrò nelle narici inerti. Non era frottola a lusingare la nostra povera materia prima, oltre che la nostra ultima consistenza. Siamo fatti del grigio della polvere al suolo e del fiato di un vento.
Omar Khayyam, poeta dell'islam, la riconobbe, quella degli antenati, in un impasto di vasaio. Al tornio vedeva modellare la cenere e la polvere delle vite trascorse e sbriciolate. L'acqua ridava loro l'elastico di una forma. Fa così, quando piove sul Negev in aprile e risveglia di fioriture il suo tappeto.
Prima di Omar, già Isaia aveva puntato l'indice del tu. "E adesso Iod tu sei padre nostro, noi l'argilla e tu il nostro vasaio e opera di tua mano tutti noi" (64,7). Il bianco e nero narra quest'argilla. Lontano da città, da civiltà ammucchiata a strati, dove il più basso regge con la schiena la platea e il loggione dei pasciuti, lontano dall'inganno dei colori, uniti solo nell'arcobaleno ma divisi in terra da bandiere, epidermidi, uniformi: nel largo dove l'umanità si accampa provvisoria, splende il suo bianco e nero di origine.
Da qui scendemmo i gradini sbilenchi delle disuguaglianze, qui torneremo a racimolarci, dopo lo sfoltimento prossimo venturo. Ogni volta che Danilo torna da una periferia, da un bordo del mondo, io riconosco il centro. Il suo bianco e nero è profezia ma pure sostanza chiusa nel midollo. Raggiunge un sorriso e lo riporta indietro, osso felice in bocca a lui randagio. Uno solo di questi sorrisi fa lume sufficiente al nostro opaco, squilla più del gallo dell'alba. Torneremo, anzi torneranno i salvati a casaccio che ci seguiranno, a schioccare questi sorrisi dalle loro labbra. Erri De Luca

Il Narmada, che si chiama anche Reva, è un fiume danzante. Ricco di rocce e cascate, è stato la culla della più antica civiltà umana. È un fiume bellissimo, adorato da milioni di persone che cercano le sue sponde per raggiungere la Moksha, la salvezza. È un fiume che attraversa molti siti archeologici. Qui sono nati i primi ominidi, i primi esseri umani, i primi contadini dell'Asia. Per secoli, sulle sue sponde, è fiorita una cultura ricca di dei e dee, templi, moschee e ghats, di campi coltivati, foreste e pescatori. Nel corso degli anni, la lotta per difenderlo dalle dighe si è trasformata in una critica all'idea corrente di sviluppo, che significa saccheggio della terra e distruzione di comunità antiche di molte generazioni. In questa epoca di dominio del mercato e del denaro, il Movimento per la difesa del Narmada ha accettato la sfida della ricostruzione, secondo una visione umana, orientata, con la tecnologia appropriata, alla protezione della vita. Tutto ciò che dalle scuole ai progetti di energie alternative possa servire per uno sviluppo diverso, centrato sulle persone; per relazioni sociali diverse da quelle dominate dal consumo. Diverse da quelle implicate nella scelta di gareggiare con l'Occidente sui suoi stessi simboli, quelli della cosiddetta modernità.
Perché è chiaro che non si può parlare delle comunità contadine, degli adivasi, dei villaggi come se fossero comparse di un documentario. Non si può filmarli, guardare la loro povertà, perfino provare pietà per loro e poi pensare che debbano essere guidati, trasportati nella modernità, senza curarsi dei loro diritti. Devono cambiare, se vogliono smettere di essere poveri - questo si dice - devono adattarsi, competere nell'economia di mercato. Il tipo di economia che viene imposta, assieme a un certo tipo di politica, assieme alle dighe che vogliono imbrigliare la danza del Narmada, non è né includente né sostenibile e potrebbe sfociare nella distruzione di tutte le risorse e delle comunità che con esse e per esse vivono.
Se così fosse, dove andrebbero tutti? Non solo i contadini, gli indigeni, ma proprio tutti. Perché tutti, direttamente o indirettamente, vivono grazie ai fiumi danzanti come il Narmada. Ai suoi dei e alle sue dee, alle sue rocce, ai suoi templi, moschee e ghats. Nessuno, finora, è riuscito a nutrirsi di banconote. Medha Patkar

www.carta.org

Per non dimenticare Anna Politkovskaja

Cronista senza tregua
James Meek, “The Guardian”

Tratto da “Internazionale” nr. 566 – www.internazionale.it

Anna Politkovskaja proviene dall’alta società sovietica, quell'élite metropolitana che conosceva il mondo meglio delle fabbriche negli Urali e che garantiva ai suoi figli un buon posto nelle caotiche burocrazie di Mosca. Superati i quarant'anni e avuti due figli, Anna Politkovskaja si è trovata sola sulle colline cecene, in fuga nell'oscurità della notte. Scappava dai servizi di sicurezza russi, l’Fsb, che volevano arrestarla. Ma sugli altopiani di una regione senza legge e immersa nel sangue poteva cadere vittima di qualunque cosa: banditi ceceni, squadre della morte del governo di Mosca o di Grozny, una frattura al collo. Era l'Europa, ed era il 2002.
"Ho camminato tutta la notte", racconta. “Volevo continuare a vivere. E’ stato terribile. Ho raggiunto il villaggio ceceno di Stary Atagi all'alba. Ci sono rimasta un giorno e una notte, tenendo la testa bassa". Continua a parlare per un po', poi sembra riprendere il controllo di sé. Forse teme che raccontare a uno sconosciuto uno dei tanti episodi della sua vita in cui ha rischiato di andare in prigione o di fare una brutta fine sia irrilevante per la seria professione del giornalista. "Ma questi sono solo dettagli", taglia corto.
Nell'atmosfera tranquilla dell'appartamento di un editore londinese, sul volto della Politkovskaja - una delle più coraggiose tra i tanti coraggiosi giornalisti russi - si possono leggere le diverse stagioni della sua vita, e il suo impegno in ciascuna di esse: la studentessa degli anni settanta, la giovane cronista sovietica onesta e curiosa, la giornalista che ha abbracciato le libertà della perestrojka alla fine degli anni ottanta, la veterana dei recenti conflitti russi, pronta a tornare più volte in Cecenia, facendo infuriare la leadership del Cremlino che cerca di trasformare Vladimir Putin in un khan infallibile.

La sua serietà non traspare solo dall'espressione accigliata, dagli occhiali austeri e dai capelli bianchi. Sono la tensione, la rabbia e l'impazienza di tutto il corpo a rendere evidente che la coscienza delle continue ingiustizie compiute nel suo paese non k lascia mai. Non può metterla a tacere come riescono a fare molti giornalisti britannici, perfino quelli più impegnati e radicali.
E’ una sorpresa, quindi, sentirla prendere in giro il fotografo che vuole convincerla a posare. “I fotografi fanno sempre così", spiega nel suo inglese esitante. “Costringono le persone a fare cose che normalmente non fanno". Il fotografo è piuttosto infastidito, e mi rendo conto che Anna - 46 anni - è ancora giovane. Ed è ancora piena di speranza. La sua foto sulla quarta di copertina del nuovo libro, La Russia di Putin (che sarà pubblicato in Italia da Adelphi), è così consapevolmente tragica e l'argomento così cupo che le chiedo se secondo lei ci vorranno generazioni perché il suo paese diventi veramente libero. “Non vorrei mai dover dire che serviranno generazioni", risponde. "Nell'arco della mia esistenza voglio riuscire a vivere una vita da essere umano, in cui ogni individuo è rispettato".

Alla scoperta del mondo
Anna Politkovskaja è nata a New York dove i suoi genitori ucraini erano diplomatici sovietici all'Onu - nel 1958, cinque anni dopo la morte di Stalin. Rispedita a casa per studiare, dopo la scuola è entrata nella facoltà di giornalismo dell'università statale di Mosca, una delle più prestigiose dell’Urss. Tra gli altri vantaggi, lo status diplomatico dei suoi genitori le dava la possibilità di consultare libri che all'epoca erano al bando, permettendole di scrivere una tesi di laurea su una poetessa quasi proibita, l'emigrata Marina Cvetaeva.
Dopo la laurea, Anna ha lavorato per il quotidiano Izvestija e poi è passata al giornale della linea aerea Aeroflot. “I giornalisti avevano biglietti gratis tutto l'anno: potevamo prendere qualsiasi aereo e andare dove volevamo. Ho girato in lungo e in largo il nostro enorme paese.
Venivo da una famiglia di diplomatici, ero una lettrice accanita, un po' secchiona. Non sapevo niente della vita"
Con l'arrivo della perestrojka, Anna Politkovskaja è passata alla stampa indipendente, che in quegli anni cominciava a emergere e ad affermarsi: prima la Obshaja Gazeta, poi la Novaja Gazeta. Nessuna delle cose terribili accadute dopo l'arrivo al potere di Mikhail Gorbaciov, nel 1985, l'ha convinta che sarebbe stato meglio salvare l'Unione Sovietica.
"Da un punto di vista economico la vita diventò molto difficile", racconta, "ma politicamente fu tutt'altro che uno shock. Era pura felicità, quella di poter leggere, pensare e scrivere tutto ciò che volevamo. Era una gioia. Bisogna essere disposti a sopportare molto, anche in termini di difficoltà economica, per amore della libertà". Ma appena i nuovi paesi dell'ex Unione Sovietica hanno cominciato a camminare sulle loro gambe, è scoppiata una serie di guerre intestine. La più feroce, che continua ancora oggi, è quella per riconquistare il controllo della piccola regione della Cecenia. E Anna Politkovskaj a è diventata una delle croniste più tenaci del conflitto.

Il prezzo del conflitto
I russi parlano di due guerre cecene: la prima, dal 1994 al 1996 sotto la presidenza di Eltsin, è finita con un accordo di pace e il ritiro delle truppe di Mosca, grazie alla pressione dei mezzi d'informazione e dell'opinione pubblica. All'epoca della seconda invasione, nel 1999, Putin ha cercato di impedire che i giornalisti lo mettessero in imbarazzo raccontando i misfatti russi in Cecenia. Se, come ritiene Anna Politkovskaja, fermare la prima guerra cecena è stato il maggiore successo dei reporter russi negli anni relativamente liberi di Eltsin, la seconda guerra cecena è stata il loro più grande disastro.
Un tempo voce indipendente tra tante altre, la Novaja Gazeta è oggi uno dei pochi mezzi d'informazione russi che non si è lasciato intimidire e non segue la linea del Cremlino.
Ad Anna Politkovskaja la seconda guerra cecena è costata innanzitutto il suo matrimonio. Un giorno del 1999 dopo un reportage su un attacco russo a Grozny in cui erano stati colpiti un mercato e un reparto di maternità ed erano rimaste uccise decine di persone, tra cui donne e bambini - tornò a Mosca e il marito le disse: "Non ce la faccio più a sopportare tutto questo". Qualche mese fa ha rischiato la vita quando, in viaggio verso Beslan subito dopo il sequestro degli ostaggi nella scuola, qualcuno le ha versato del veleno in una tazza di tè. E in questi anni ha ricevuto molte minacce di morte da soldati russi, combattenti ceceni e altri gruppi armati che operano ai margini della guerra. I sequestri, le uccisioni extragiudiziarie, le sparizioni, le torture e gli stupri l'hanno convinta che sono proprio le scelte politiche di Putin ad alimentare il terrorismo che dovrebbero eliminare. “Ancora oggi, la tortura è praticata in qualunque centro dell’Fsb in Cecenia. Il cosiddetto “telefono”, per esempio, che consiste nel far passare la corrente elettrica attraverso il corpo di un detenuto. Ho visto centinaia di persone che hanno subito questa forma di tortura. Alcune sono state seviziate in modo così perverso che mi riesce difficile credere che i torturatori siano persone che hanno frequentato il mio stesso tipo di scuola e letto i miei stessi libri".

Anna non si pente delle volte in cui ha messo da parte il suo ruolo di giornalista per assumerne un altro – di negoziatrice durante l’assedio al teatro di Mosca e di potenziale negoziatrice a Beslan, prima di essere avvelenata. "Sì, sono andata al di là dei miei doveri di cronista", spiega. "Ma sarebbe del tutto sbagliato sostenere che da un punto di vista giornalistico è stata una brutta mossa. Rinunciando al mio ruolo ho imparato tante cose che non avrei mai capito continuando a essere una semplice cronista”. Ha parole dure per quello che considera il guanto di velluto dell'occidente nei confronti di Putin e della Russia. "Il più delle volte dimenticano la parola Cecenia. La ricordano solo quando c'è un attentato. E allora tutti si stupiscono. Ma di fatto nessuno parla di cosa succede realmente in Cecenia, e dell'aumento del terrorismo. La verità è che i metodi di Putin stanno generando un’ondata di terrorismo senza precedenti nella nostra storia". La "guerra al terrore" di Bush e Blair ha aiutato enormemente Putin, sostiene Anna Politkovskaja. Molti russi hanno provato un piacere perverso nel vedere le foto degli abusi americani nel carcere di Abu Ghraib.
"L’ho sentito ripetere molte volte. In Russia la gente ne parla con orgoglio: “Noi quelli lì li abbiamo trattati così prima degli americani, e avevamo ragione perché sono terroristi internazionali”.
Putin ha cercato di convincere la comunità internazionale che anche lui sta combattendo il terrorismo globale, che anche lui partecipa a questa guerra così di moda. E c'è riuscito: per un periodo è stato il migliore amico di Blair. E’ stato spaventoso quando, dopo Beslan, ha cominciato a sostenere che si poteva quasi vedere la mano di bin Laden. Che cosa c'entra in questa storia bin Laden? E’ stato il governo russo a creare e allevare quelle belve.
L'unico modo in cui l'occidente può recuperare la sua autorità morale, sostiene Anna, è quello di trattare Putin come tratta Aleksandr Lukashenko, il presidente della Bielorussia - non le sanzioni, ma una forma di isolamento più personalizzata. “Com'è possibile parlare del mostruoso numero di vittime e del terrorismo in Cecenia, e poi stendere un tappeto rosso davanti a Putin, abbracciarlo e dirgli: “Noi siamo con te, sei il migliore”? Questo non dovrebbe succedere. Capisco che il nostro paese è un grande mercato, che è molto allettante. Me ne rendo perfettamente conto. Ma noi non siamo persone di serie B, siamo gente come voi, e vogliamo vivere"

www.disinformazione.it

I libri di Anna Politkovskaja non sono mai stai pubblicati in Russia, e le edizioni originali sono in inglese.

Edizioni italiane:
-Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma, 2003
-La Russia di Putin, Adelphi, Milano, 2005
-Proibito parlare: Cecenia, Beslan, teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin, Mondadori, Milano, 2007
-Diario russo 2003-2005, Adelphi, Milano, 2007

Edizioni originali:
• Russia under Putin, The Harvill Press, London, 2001
• A Dirty War: A Russian reporter in Chechnya, The Harvill Press, London, 2001
• A Small Corner of Hell: Dispatches from Chechnya, University of Chicago Press, Chicago, 2003
• Putin's Russia, The Harvill Press, London, 2004
• A Russian Diary: A Journalist's Final Account of Life, Corruption, and Death in Putin's Russia, Random House, 2007

Riconoscimenti e premi
• 2001: Premio dell'Unione dei Giornalisti Russi
• 2001: Global Award for Human Rights Journalism (Amnesty International)
• 2002: Freedom to Write Award (PEN American Center)
• 2002: Courage in Journalism Award (International Women's Media Foundation)
• 2003: Lettre Ulysses Award
• 2003: Medaglia Hermann Kesten
• 2004: Premio Olof Palme (assieme a Lyudmila Alekseeva e Sergei Kovalev)
• 2005: Premio per la Libertà ed il Futuro dei Media (Media City Leipzig)
• 2006: International Journalism Award
• 2007: Premio Internazionale Tiziano Terzani
• 2007: Premio Mondiale per la libertà di stampa UNESCO/Guillermo Cano (pdf file)
• 2007: Premio Ilaria Alpi per la libertà di stampa

www.associazionepolitkovskaja.eu

Il buon samaritano

"Purtroppo il nostro cuore è spesso freddo verso gli altri; se si riscalda è solo per noi stessi. (...) La via dell'amore è perciò segnata dal cambiamento del cuore di ciascuno di noi. Per questo l'amore non è e non può essere un atteggiamento spontaneo, naturale, che ciascuno ha come d'istinto o per carattere. No, l'amore evangelico richiede un lungo lavoro sul proprio cuore, sui propri sentimenti, sui propri pensieri, sulle proprie reazioni, sulla propria vita. Ed è un lavoro che non avviene senza fatica e dolore, senza tagli e senza rinunce. Ma è solo da un cuore rinnovato che sgorga una nuova vita, una nuova forza che cambia anche il mondo, che fa arretrare il male e apre lo spazio al bene".

don Vincenzo Paglia

..davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni tra il bene e il male..

L'estratto che segue, da "L'obbedienza non è più una virtù", è parte della risposta di don Lorenzo Milani al Comunicato dei cappellani militari del 12 febbraio 1965, che si opponevano all'obiezione di coscienza ritenendo che fosse un insulto alla Patria e ai suoi caduti e che "estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà".
Dal 1965 al 2008. Oggi possiamo allargarne il significato su più "fronti". Viviamo l'epoca della farsa e della sopravvivenza. Dobbiamo r-esistere con il coraggio della verità ad ogni tentativo di aumentare le nostre paure e svilire le nostre coscienze attraverso una dubbia informazione e una dubbia moralità, passate per legittime.

"Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato,privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona.Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. E' troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa".

don Lorenzo Milani